Di viaggi lenti, divani e montagne (parte II)

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Questa volta mi sembrava di fare le cose sul serio, forse come mai era accaduto prima di allora: avevo procurato una bicicletta ben più prestante della vecchia Gaia, l’avevo dotata di un’ulteriore borsa per ampliare lo spazio a mia disposizione, e poi, proprio come l’Huck Finn di Mark Twain, una bella mattina di metà luglio avevo infilato i miei vecchi stracci e mi ero rimesso in viaggio in cerca della libertà. Partivo in direzione della Valle d’Aosta con una grande ambizione, quella di poter fare quanta più strada possibile per raccontare ogni fetta d’Italia in cui fossi capitato nel corso della mia nuova avventura, ma anche per guardarmi un po’ attorno, per cercare di capire, insomma, quali posti avrei potuto considerare “casa” e quali invece no. Dove sarei andato dopo la Valle d’Aosta, tuttavia, ancora non lo sapevo, e lo avrei affidato al caso, alle nuove conoscenze e al momento. All’epoca non mi pareva nemmeno un progetto troppo insensato, considerando che mi ci vollero appena otto giorni per percorrere i trecento chilometri che separano il piccolo paese in cui vivo da Estoul. Eppure, per la prima volta dopo diversi anni, ebbi la netta sensazione che qualcosa fosse ormai tramontato in me. Era chiaro, anche se poteva essere prevedibile: non sarei più riuscito ad andarmene in giro da solo come avevo fatto sino ad allora, e questa convinzione si rafforzava sempre più a ogni chilometro che percorrevo. Forse il motivo era un nuovo bisogno di stabilità e di compagnia di fronte alle mille avversità che riservano solitamente i viaggi lenti; oppure, più semplicemente, un cambio di prospettiva riguardo alla ricerca interiore, cui aveva in parte contribuito la lezione del virus (è sufficiente una stanza per poter viaggiare dentro di sé) e in parte l’incontro con una persona, la quale, non molto tempo prima, aveva risvegliato un lato di me da tanti anni sopito. Chi lo sa. Sta di fatto che tornavo in Valle d’Aosta per riprendere il viaggio da dove l’avevo interrotto esattamente un anno prima, eppure, più mi avvicinavo a essa, e più sentivo forte dentro di me che il piccolo villaggio di Estoul, anziché un punto di partenza, avrebbe costituito ancora una volta un punto di arrivo. Un giorno di fine luglio, non a caso, appuntai questo pensiero: “Qualcosa di particolare sta succedendo in me. Gli orizzonti interiori lentamente si ampliano e io, di conseguenza, mi appresto a nuovi grandi sforzi per descrivere a parole cose che prima erano a me ignote. Forse, però, non del tutto: magari c’erano, ed ero io che non le vedevo. Oppure, più semplicemente, le percepivo male, in maniera grossolana. Ad esempio, come si potrebbe meglio definire quella luce che si accende in noi mentre si viaggia, e che si cerca di portare in dono agli altri nel momento in cui siam più vulnerabili, quando non si possiede null’altro di materiale da poter offrire in cambio?”

Non so se questa sia necessariamente una cosa negativa, eppure, vuoi per la monotonia delle strade e dei paesaggi di campagna che si somigliano un po’ tutti, vuoi per i motivi che ho cercato di spiegare sopra, di quei trecento lunghissimi chilometri attraverso la sconfinata pianura padana mi erano rimasti impressi, come in un montaggio cinematografico, solamente alcuni brevi spezzoni, collegati più che altro a emozioni e sensazioni ben precise: la mattina insolitamente fresca e profumata d’autunno del giorno in cui ero partito, il guado del fiume Po nei pressi del celebre Transitum Padi in cui secoli prima fu di passaggio l’arcivescovo Sigerico di Canterbury, i roventi argini lungo il grande fiume costellati dagli innumerevoli paeselli che - per dirla con Giovannino Guareschi - rendevano l’intera pianura qualcosa di simile a un unico, enorme Mondo piccolo. Le sterminate risaie le quali, con il loro colore vivace e intenso, sembravano promettere a tutti noi mortali un’eterna primavera, le imponenti montagne valdostane all’orizzonte simili a miraggi nel deserto dopo tanto pedalare, il tremendo temporale che mi sorprese nei pressi della Dora, i cui tuoni sembravano rimbalzare senza fine da una parte all’altra della valle facendomi ricredere sull’importanza della fede. Il giorno in cui infine arrivai a Estoul passai dapprima a salutare Barbara, dopodiché andai a cercarmi un angolino per la tenda prima che calasse il buio. Faceva un freddo cane per essere luglio, ero tutto inzuppato per via della pioggia battente, eppure mi sentivo felice. Era il mio compleanno, ma di quello ormai non m'importava più nulla. Mi accorsi piuttosto che di notte il bosco faceva proprio paura, senza la presenza rassicurante degli altri partecipanti del festival. Fu nel corso di quei giorni passati in tenda tra i larici che presi la decisione di fermarmi a Estoul per il resto dell’estate, anziché ripartire verso l’ignoto. Tutto era iniziato il giorno in cui chiesi a Remigio (io e Remigio ci eravamo già conosciuti l’anno prima, anche se di lui non ho ancora parlato. Un giorno magari vi racconterò del nostro primo memorabile e turbolento incontro) se avessi potuto fare una doccia veloce nella sua locanda. Nessun problema, mi rispose lui dopo averci riflettuto un pochino, avrei potuto farla senza problemi in una graziosa stanzetta sul retro di casa. Andò però a finire che - avendo notato in quella stanza un letto che pareva tanto comodo e invitante - non riuscii a trattenermi dal domandargli se quella notte avessi potuto dormire lì. Il giorno seguente, infatti, mi sarei dovuto svegliare prestissimo per fare una gita a Milano, il che significava dover raggiungere il fondovalle in bici di prima mattina per non perdere l’unico autobus disponibile; una roba da matti, insomma, considerando che Estoul si trova a circa duemila metri di quota. Paolo, non a torto, aveva passato il resto dell’estate a prendermi in giro per questa mia uscita; ne era nata perfino una sorta di leggenda, che suonava più o meno così: “Ma quello è un divano?”. Sapevo bene di essere stato un terribile scroccone, eppure dovetti ben presto riconoscere un qualcosa di eroico nel gesto di Remigio: chi altro infatti al posto suo, seppur gestendo una locanda, mi avrebbe offerto una stanza senza chiedere un soldo in cambio? Più tardi scoprii che anche Remigio possedeva lo spirito del viaggiatore, ed era forse questo il motivo che lo aveva portato ad accogliermi anziché rispedirmi nel bosco; eravamo diventati amici proprio così, parlando giorno dopo giorno di viaggi, di libri e di vita in montagna. Mi raccontò del grande viaggio in Himalaya che aveva fatto alcuni anni prima e di tutte le difficoltà che comportano spedizioni estreme del genere, delle letture che più lo avevano segnato nel corso della vita e delle soddisfazioni, ma anche dei sacrifici, che richiede la vita dei montanari. Nel corso di quelle piacevoli serate di fine luglio c’era una magnifica luna piena, e io avevo preso l’abitudine di fare lunghe passeggiate fin dove il chiarore lo consentiva. Se non andavo a camminare passavo a fare due chiacchiere con Remigio, e un dialogo dei nostri poteva essere più o meno questo:
Remigio: “Ci sono alcune persone che ancora non hanno capito che scrivere libri e girare film può essere un lavoro come tanti altri.”
Io: “A quelle persone solitamente dico che lavoro in campagna per non destare sospetti.”
Remigio: *ride*
Io: “Il mio sogno è quello di prendermi una casetta, campare del mio orto e non rompere più i coglioni a nessuno. Perché non ci lasciano vivere senza poter fare a meno degli stupidi soldi?”
Un giorno, tuttavia, confessai a Remigio che non mi ero fermato a Estoul perché volevo diventare pure io un montanaro. Ci avevo già provato, anni prima, a mettere radici in montagna, ma avevo sempre incontrato persone che mi avevano fatto rimpiangere la pianura. A Estoul era diverso rispetto a qualsiasi altro luogo in cui fossi mai stato, eppure forse è meglio che sia andata così. Ciò che m’interessava adesso era infatti la condivisione, lo scambio e il senso della scoperta, più che un ideale di vita - in questo caso quello della montagna. Mi sentivo, e forse mi sentirò sempre, un viaggiatore; d’ora in avanti non avrebbe avuto più alcuna importanza se mi fossi stabilito al mare oppure in montagna, ed ero contento che in questa consapevolezza riecheggiasse l’antico insegnamento di Barbara: sono le persone che valorizzano i luoghi e li rendono unici. Contattai quindi alcuni montanari che avrebbero potuto affittarmi un alloggio, e così, per l’inizio di agosto, ebbi finalmente una casetta tutta per me, che ribattezzai affettuosamente “la tana”. Era una casa come tante altre, un po' troppo fredda per i miei gusti e a tratti anonima, eppure quel piccolo monolocale segnava l’inizio di un nuovo, inedito capitolo della mia vita.

Non avevo scritto molto durante il mio soggiorno a Estoul. Avevo preferito di gran lunga vivere a fondo le mie giornate, anziché passare il tempo a scriverne, col rischio sempre presente di lasciarmi sfuggire qualcosa di significativo. Piccoli avvenimenti, del resto, che però avrebbero fatto la differenza e che avrei potuto rielaborare una volta tornato in pianura. A parte brevi riflessioni e pensieri appuntati qua e là come sono solito fare, di compiuto avevo scritto solamente una cosa. In essa cercai di racchiudere la magia di un momento particolare della giornata, il tramonto, ma anche quella dell’amicizia, in questo caso tra uomini e cani. Più ancora, forse, il senso di un soggiorno in un villaggio di montagna in cui il tempo è sospeso e apparentemente non accade mai nulla: “Ore diciotto circa di un venerdì settembrino: seduto con Nanuk sul bordo di un grande prato, decido di farmi una foto ricordo con lei. Poco più sotto pascolano alcune capre, le prime che incontro dopo più di un mese che sono a Estoul. Loro osservano noi, noi osserviamo loro, ci studiamo a vicenda con grande interesse. Ancora oltre le capre, il versante della montagna si fa sempre più ripido e inaccessibile, tutto boschi rocce e dirupi alternati a brevi tratti di prato. Finalmente scatto una foto che mi convince. Quando ci rialziamo, le capre non si vedono più. Ci dirigiamo quindi verso l'ormai familiare catasta: c'è da finire di sistemare la legna per Remigio, un'oretta di lavoro circa. Intanto che accatasto la legna, Nanuk torna con un pezzetto di pane che aveva sepolto chissà dove; è tutto sporco di terra, eppure se lo mangia comunque. Una piccola lezione di vita. Giorni prima, scavando meticolosamente in un mucchietto di segatura accanto alla catasta, aveva nascosto addirittura un intero panino. Chissà se, prima o poi, verrà a riprendersi anche quello. Bisogna avere una buona memoria per certe cose. Finito il lavoro, facciamo l'ultimo giretto del giorno. Il sole è ormai basso all'orizzonte, sono gli ultimi minuti di luce. Nanuk vede un gatto tra le case di Feniglietta e parte al suo inseguimento. Quando torna, mi guarda allegra come a dire: «Mi spiace, sono fatta così». Volevi cucinartelo arrosto, quel povero gatto?, le domando allora io. Ma lei è già altrove. Si fa sempre più buio, e adesso Nanuk è solo un'ombra che scorrazza per i pascoli. E' una vera forza della natura, e sembra proprio non stancarsi mai. Si accendono le prime luci degli alpeggi più in alto; alle mie spalle, lentamente s'illumina l'intera vallata fin dove arriva lo sguardo. Le imponenti montagne del Gran Paradiso quasi non si distinguono più nella foschia della sera. Come sottofondo, rumori acuti di campanacci, grida di pastori e abbaiare nervoso di cani: è l'ora in cui le vitelle rientrano nelle stalle. Ci inoltriamo adesso nel fitto dei larici. Qui ogni suono viene attutito e così torna il silenzio. Ci fermiamo a bere alla fontana del festival, acqua aspra e fresca che arriva direttamente dalla montagna, e proseguiamo la nostra passeggiata seguendo la strada sterrata che riporta al villaggio. Quando infine passiamo da Remigio, mi accorgo che lui non è ancora tornato. Casa sua è anche la casa di Nanuk, e speravo di lasciargliela prima di ridiscendere in paese. Così torna giù con me, e io, non avendo di meglio da offrirle, cucino un po' di pasta anche per lei. Prima di ritirarmi nella mia tana, la faccio uscire e chiudo la porta una volta per tutte. Poco più tardi guardo fuori, e lei non c'è già più. E' un cane libero, Nanuk, sempre a zonzo per boschi e case e pascoli, padrona di scegliere cosa fare e soprattutto con quali amici trascorrere il proprio tempo. Ci eravamo conosciuti così, quasi per caso una sera di agosto, e da quel giorno siamo diventati praticamente inseparabili. Credo che mi mancherà, Nanuk, quando tornerò nella grande pianura”.

Tante altre cose ci sarebbero da dire su vagabondaggi, montagne e nuove amicizie che nascono nel corso di un viaggio con lo zaino in spalla: considerazioni più o meno profonde di ordine etico ed estetico, così come innumerevoli piccoli aneddoti, a volte divertenti, altre volte un po’ meno. Per ora, tuttavia, mi fermo qui, nella speranza di tornare presto a parlarne e nell’augurio che ciò che ho scritto possa avervi per lo meno incuriosito. Se è vero che il destino abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa, son contento di essere capitato, in un modo o nell’altro, in quel piccolo borgo a duemila metri di quota: credo che Estoul mi abbia aiutato, prima di tutto, a far luce su alcuni aspetti di me che prima di allora ritenevo inaccessibili, ma anche a capire un po’ meglio cosa voglio diventare per davvero nella vita. Conoscere sé stessi è la cosa più importante, e son contento che il lento vagabondare e la montagna abbiano dato, almeno nel mio caso, un contributo decisivo. Il resto è pura narrazione, e lo lascio per l’appunto alle parole che verranno.




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