Di viaggi lenti, divani e montagne (parte I)

A Estoul succedono sempre cose belle:
basta prendere la strada per il monte
e ti si apre un altro mondo. Migliore, forse?
Di certo più sincero, ma anche limpido e puro.

Cosa mi ha insegnato di nuovo questo mondo?
A brillare di luce propria, come sarebbe difficile
altrimenti
nella grande pianura polverosa.

[Estoul, 28 luglio 2020]


La prima volta in cui sentii parlare di Estoul fu in occasione della lettura di un libro dall’aspetto esile eppure pieno di vita, Il ragazzo selvatico, che avevo acquistato alla libreria Feltrinelli di Bologna, quella che si trova sotto alle due torri, ai tempi in cui ancora frequentavo l’università. Due cose, in particolare, mi avevano incuriosito di quel libro e convinto a portarmelo a casa: la dedica - tra le altre - in memoria di Christopher McCandless, il ragazzo americano divenuto celebre al grande pubblico grazie al film di Sean Penn Into the Wild, ma, soprattutto, le varie tematiche affrontate tramite il racconto di una fuga in montagna, tematiche che emergevano con forza sin dalla citazione in seconda di copertina: “Ero andato in montagna con l’idea che a un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile: invece il mio vecchio nemico spuntava fuori ogni volta più forte di prima. Avevo imparato a spaccare la legna, ad accendere un fuoco sotto il temporale, a coltivare un orto quasi selvatico, a cucinare con le erbe di montagna, a mungere una mucca e imballare il fieno, e a usare la motosega, la falciatrice, il trattore; ma non avevo imparato a stare da solo, che è l’unico vero scopo di ogni eremitaggio. Più che a una capanna nel bosco, la solitudine assomigliava a una casa degli specchi: dovunque guardassi trovavo la mia immagine riflessa, distorta, grottesca, moltiplicata infinite volte”. In un certo senso le due cose - o almeno, così pensai istintivamente allora sfogliando il libro - si intrecciavano, perché probabilmente i motivi che avevano spinto Christopher a lasciarsi il passato alle spalle non dovevano essere poi tanto dissimili da quelli che avevano portato Paolo, l’autore del libro, alla baita di Estoul. Anch’io ammiravo molto la vicenda di Chris, e, sin dai tempi dell’università, avevo cercato di sperimentare ciò che da lui - ma anche da altri scrittori, penso ad esempio al Kerouac de I vagabondi del Dharma - credevo di aver imparato riguardo ai vagabondaggi in solitaria. In questo senso, il mio primo esperimento in assoluto era stata la Via degli Dei, un percorso escursionistico che collega Bologna a Firenze, in cui mi cimentai nel lontano giugno del 2014 dopo essermi meticolosamente procurato l’occorrente per affrontare alcuni giorni di cammino: uno zaino bello capiente, una tenda, un materassino gonfiabile, e tanti altri piccoli accorgimenti che in situazioni del genere possono fare veramente la differenza. A quella faticosa scarpinata avevano seguito tante altre brevi ma indimenticabili avventure a piedi tra colline e montagne dell’Appennino tosco-emiliano, finché, nel 2018, forte dell’esperienza accumulata fino ad allora, non provai a organizzare qualcosa di leggermente diverso e sicuramente più impegnativo: partire alla volta di Roma in sella a una vecchia bicicletta che per l’occasione ribattezzai ufficialmente Gaia. Venne quindi il 2019, l’anno del viaggio più intenso e significativo che io abbia mai fatto, quello in cui vagabondai per alcune settimane lungo le coste della Sardegna e che terminai proprio a Estoul, in Valle d’Aosta, per partecipare al festival Il richiamo della foresta, organizzato dallo stesso Paolo. Quel viaggio segnava l’inizio, per me, di una nuova epoca.

Ora, se c’è un qualcosa che ha spinto il sottoscritto a cimentarsi in tali follie, questa cosa era proprio la ricerca di un senso, sia dentro che fuori di me; senso che - e di questo ne sono sempre stato certo - non avrei mai trovato standomene fermo tra quattro mura. Lo stesso Christopher McCandless descrisse bene il senso di questa ricerca nella famosa lettera che inviò a Ron Franz prima di partire per l’Alaska, riportata per intero nel libro di Jon Krakauer da cui è tratto l’omonimo film di Sean Penn: “C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l’avventura. La gioia di vivere deriva dall’incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in continuo cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso”.
Perché ci mettiamo in viaggio con lo zaino in spalla, verrebbe giustamente da chiedersi a un certo punto? Solamente per porci delle domande, per cercare delle risposte dentro di noi? O c’è dell’altro? Io direi, più semplicemente: per andare incontro a una sorta di illuminazione, che sia però concreta, essenziale, autentica. Illuminarsi, a mio parere, vuol dire prendere consapevolezza, e prendere consapevolezza è fondamentale per liberarsi, prima di tutto, da noi stessi. Quando ci si illumina ci si innalza, e, innalzandoci, è come se iniziassimo a vedere noi stessi e il resto del mondo dalla cima di una montagna. “La Mente Magnanima è come una montagna, stabile e imparziale. Paragonandola all’oceano, è tollerante, e considera ogni cosa dalla prospettiva più ampia”, scriveva circa otto secoli fa Dōgen Zenji, il fondatore di una delle principali correnti buddhiste Zen. E più in alto ci si eleva, fino ad arrivare alle nuvole, poi alle stelle e infine alle galassie più lontane, e più ci si accorge di quanto piccoli - e alle volte insignificanti - siamo. Partendo da casa con l’intenzione di viaggiare lentamente si possono difatti sperimentare, in una certa misura, molte di quelle privazioni che, nella vita di tutti i giorni - complice anche il benessere nel quale siamo costantemente immersi - rifuggiamo come meglio possiamo, ma che, se affrontate adeguatamente, ci permetterebbero in realtà di crescere molto. La fatica, a volte estrema, la fame, la sete, la stanchezza, la solitudine, e, più in generale, quella mancanza di certezze, quel senso di spaesamento e di frustrazione che proviamo se le cose iniziano a non andare per il verso giusto, costituiscono a mio parere quanto di più prezioso la vita possa offrirci per recuperare uno sguardo davvero profondo sul mondo. Queste cose si possono trovare ovunque attorno a noi; soprattutto, non hanno un prezzo molto alto da pagare. Occorre imparare a rinunciare a determinate cose, se si vuole guadagnarne altre di ben più meritevoli e profonde: in questo senso, il viaggio lento si è sempre rivelato, almeno per me, un’ottima scuola di umiltà.

In generale, tuttavia, sono sempre stato parecchio insofferente alle lunghe prediche e ancor più ai moralismi, quindi per adesso taglierò corto. Eppure, lo scorso anno mi ci volle ben poco per realizzare che Il richiamo della foresta costituiva, almeno per me, un ottimo terreno di dialogo e di confronto, forse come mai era accaduto prima di allora.
Furono giorni intensi, quelli del festival, ricchi di eventi, scoperte e tantissimi incontri, durante i quali mi parve quasi di essere stato catapultato nell’utopia descritta da Kerouac ne I vagabondi del Dharma attraverso le parole dell’amico Japhy: “Ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini, migliaia o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino, che salgono sulle montagne per pregare, fanno ridere i bambini e rendono allegri i vecchi, fanno felici le ragazze e ancor più felici le vecchie, tutti Pazzi Zen che vanno in giro scrivendo poesie che per caso spuntano nella loro testa senza una ragione al mondo, e inoltre, essendo gentili nonché con certi strani imprevedibili gesti, continuano a elargire visioni di una libertà eterna a ognuno e a tutte le creature viventi”. Per un attimo, mi sembrò addirittura che il vero viaggio fosse iniziato solo allora, e che, guardando le cose da una diversa prospettiva, avrei potuto considerare il lungo mese di solitudine che aveva preceduto il festival niente più che una sorta di preparazione propedeutica a quel momento. Se quello della Sardegna - ma anche dei precedenti viaggi - si era rivelato infatti il tempo del silenzio e della meditazione, quello della Valle d’Aosta si dimostrava adesso come qualcosa di totalmente inedito, forse un vero e proprio momento di rottura con il passato. Sarebbe veramente difficile descrivere ogni singola cosa che accadde in quei giorni, così mi limiterò a riportare gli insegnamenti più significativi che trassi da chi ebbi modo di conoscere personalmente: Barbara, ad esempio, mi insegnò che sono le persone che danno valore ai luoghi, e non viceversa, come del resto mi confermò l’intera comunità di Estoul e del festival. Anche da Paolo imparai una lezione fondamentale, ovvero che tutto ciò che uno scrittore ha da dire lo dovrebbe esprimere essenzialmente nei suoi libri (potrebbe sembrare una cosa banale ma non la è affatto). Mattia, Vincenzo, Roberta, Ermanno, Francesco, e tante altre persone con cui ebbi modo di parlare e di confrontarmi, mi trasmisero infine il coraggio necessario per credere nei miei sogni e non arrendermi mai. Più in generale, il piccolo villaggio valdostano mi aveva dato un’unica, grande lezione di vita: mi aveva insegnato semplicemente a essere me stesso, ed era forse questa la cosa più importante.

E a Estoul - dopo aver passato gran parte dello scorso inverno a scrivere e a interrogarmi sul senso del mio viaggiare, a riflettere su ciò che mi aveva insegnato la strada e su quanta ne avevo invece ancora da percorrere dentro di me - sono tornato anche quest’anno. In bici, ovviamente!

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