Montagna di maggio

“Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.”

[Approdo, Primo Levi, 10 settembre 1964]



Vorrei dedicare questo scritto a Debora, che l’estate scorsa aveva avuto il coraggio - e la determinazione, non senza una certa dose di incoscienza - di seguirmi nel luogo di cui parlerò a breve. E’ un piccolo bivacco di pietra e legno incastonato sul fianco di una montagna nell’alta valle del Bagnone, in Appennino, prolungamento ideale della pietraia da cui con buona probabilità derivano le sue solide mura, antico rifugio di pastori e attualmente consigliatissimo luogo di ritiro e meditazione per anime irrequiete. Dista circa due ore di cammino dai paesi più a valle, e altrettante dai rifugi posti al di là dei crinali che dividono la Toscana dall’Emilia-Romagna. La sua porta non ha lucchetti né serrature, non vi sono custodi e non occorre nemmeno pagare una tariffa per accedervi; al limite si può lasciare una piccola offerta o, meglio ancora, qualcosa da mangiare per chi verrà dopo di te. In compenso ciò che si guadagna - e che io personalmente credo di aver guadagnato ogniqualvolta vi ho trascorso qualche giorno in totale solitudine - non ha prezzo, ed è proprio questo il motivo per cui, dopo tanto tempo che lo frequento, ho sentito più forte che mai la necessità di parlarne.


Ho sempre invidiato, fin dalla prima volta in cui lessi il racconto Ferro di Primo Levi, la virtù dell’amico Sandro Delmastro - del quale, tra le altre cose, lo scritto fornisce un indimenticabile ritratto - di andarsene in montagna con poco o nulla appresso: “D’inverno, quando gli attaccava secco, legava gli sci alla bicicletta rugginosa, partiva di buonora, e pedalava fino alla neve, senza soldi, con un carciofo in tasca e l’altra piena di insalata: tornava poi a sera, o anche il giorno dopo, dormendo nei fienili, e più tormenta e fame aveva patito, più era contento e meglio stava di salute”. Forse erano altri tempi, o più semplicemente Sandro era di una pasta ben diversa dalla nostra, eppure mi sono spesso chiesto come sarebbe salire fin quassù in un giorno freddo e trascorrervi la notte, senza il mio inseparabile zaino da viaggio ricolmo di ogni più o meno indispensabile cosa: sacco a pelo, una coperta extra, cuscino e materassino gonfiabili, cibo a volontà e tanto altro ancora. E’ maggio, ma quella di oggi pare proprio la classica giornata che non promette nulla di buono: non appena parcheggio la macchina in paese - il terzultimo prima dell'imbocco del sentiero - comincia infatti a piovere. Non è una gran pioggia, ma potrebbe risultare comunque fastidiosa: me ne accorgo solamente più avanti, dove, nei tratti di sentiero maggiormente esposti, l’erba umida mi bagna l’interno degli scarponi. A muoversi ci si scalda, ma a fermarsi vien quasi subito un freddo cane. Se non avessi con me un cambio, oppure non sapessi che al Matale mi attende il dolce tepore della stufa, non sarebbe forse più opportuno tornare indietro che passare una terribile notte ad assaggiare la carne dell'orso? E’ maggio, eppure noto con stupore che la primavera non si è ancora spinta oltre una certa quota; salendo, si assiste a una sorta di inversione del ciclo della natura: gli alberi si fanno via via sempre più spogli, l’erba meno fitta, il freddo più intenso e pungente. Dove mi fermo io, a circa 1200 metri di altitudine, i faggi sono ancora ricoperti delle prime timide gemme, e mi sento come nuovamente catapultato, nel giro di poco più di due ore di cammino, nel regno dell’inverno. Il rauco richiamo di un capriolo e la nebbia spettrale completano il quadro: cosa si potrebbe desiderare di meglio, quando si va in cerca della solitudine?

Arrivo al bivacco nel tardo pomeriggio, e ci sono ancora tante cose da fare. Bisogna assicurarsi che non manchi la legna da ardere, almeno per questa prima notte, e nel caso andare a raccoglierla direttamente nel bosco; fare un po’ di ordine qua e là e pulire pentole e stoviglie, che immancabilmente saranno sporche di fuliggine e dell’ultimo pasto di chi è passato prima di me. La faccenda della legna appare sempre piuttosto controversa: vi sarebbe infatti una modesta catasta nel piccolo deposito annesso alla capanna, ben difesa tuttavia da un cartello che ne proibisce (almeno in linea teorica) l’utilizzo: “Non usare questa legna, serve per i giorni di manutenzione del bivacco”. Il che si potrebbe tradurre più o meno così: “O tu, viandante, arrangiati e piuttosto crepa di fame e di freddo, che con questa legna ci dobbiamo fare la consueta grigliata domenicale!”. Per quanto mi riguarda preferisco non utilizzare quella legna, più per orgoglio che per altro, e prediligo certamente
- anche se Debora non era stata della stessa filosofia - arrangiarmi con le mie mani, motivo che dà anche maggiore soddisfazione. Si impara a contare su sé stessi, in questo modo, e non sempre e solo sugli altri. Vado così a recuperare un po’ di rami dal bosco, che poco più tardi comincio pazientemente a tagliare a misura di stufa con la piccola sega che si trova nella cassetta degli attrezzi; è legna umida di pioggia, speriamo possa dare comunque un buon fuoco... La fonte si trova invece a un decina di metri più a valle, e la si raggiunge più o meno comodamente seguendo il sentiero principale. Dopo aver fatto la legna e messo da parte un bel po’ d’acqua, arriva il mio momento preferito di sempre, quello di accendere il fuoco e preparare la cena. Sono ormai le otto di sera e adesso comincia a fare veramente freddo. Tra poco farà buio e io provo una certa soddisfazione nell’aver terminato i lavori con perfetto tempismo. Mi cambio i vestiti ormai fradici e aspetto che il fuoco sia abbastanza vivo per cominciare a far bollire l’acqua, intanto mi scaldo e assisto alla metamorfosi che subisce il bivacco quando la stufa è accesa e ruggisce sommessa. Ricordo di una volta - era novembre o dicembre - in cui, aprendo la porta, mi sorpresi nel trovare addirittura del ghiaccio all’interno della struttura il quale, in qualche strano modo contorto, doveva essersi insinuato attraverso le fessure della piccola finestra e depositato sulla panca poco più sotto; e ricordo con altrettanta nostalgia il modo in cui il fuoco, anche quella volta, fu in grado di far cambiare faccia all’intera capanna, rendendo abitabile quella che fino a qualche minuto prima era stata poco meno di una tana dell’orso. Finalmente è pronta la pasta, umile pasta aglio olio peperoncino, eppure, dopo tutto il lavoro che hai fatto per prepararla, ti sembra di non averne mai mangiata di più buona in vita tua. I lavori più gratificanti, strano ma vero, risultano sempre essere proprio quelli essenziali: ci sarebbe davvero bisogno di venire fin quassù per ricordarsene? Solo a quel punto stendi il sacco a pelo vicino alla stufa e ti addormenti, sperando che la legna bruci a lungo e il gelo dell’alba non ti possa destare mai dal meritato sonno che ti spetta.

Il mattino seguente piove ancora. Bene: perché questo vuol dire che non salirà nessuno, e io sono venuto qui proprio per stare da solo. Male: perché la legna che raccoglierò per il fuoco sarà messa ancora peggio di quella di ieri. Per il resto la pioggia non rappresenta un grande problema; indosso l’impermeabile e via, vado dove voglio: alla fonte, a raccogliere la legna, a fare due passi fino alla croce da cui, nelle belle giornate, si scorge il mare lontano. Accendo un piccolo fuoco con l’ultima legna che è rimasta dalla sera precedente e faccio colazione. Al bivacco c’è addirittura una moca, e io non ho scordato di portare un po’ di caffè, un piccolo lusso da queste parti. La raccolta di poesie di Primo Levi Ad ora incerta
mi tiene compagnia per il resto della mattinata. Caffè, stufa e un buon libro in un giorno di pioggia: cosa si potrebbe desiderare di più? Verso la fine del racconto Ferro, Primo Levi scrive: “Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora: […] alla prima luce funerea, che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline”. Anche a me, soprattutto durante i mesi invernali, era capitato di vivere disavventure simili nel corso di certe notti che non finivano mai, passate a girarmi e rigirarmi nel mio misero sacco a pelo con addosso due o tre strati di vestiti nel vano tentativo di scaldarmi e di trovare una posizione comoda, ma non è questo il punto. Non rimpiango, a differenza di Primo, di aver mangiato poca di quella celebre carne dell’orso - da cui pure qualche beneficio penso di aver tratto - il cui sapore sarebbe quello “di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”, come scrive in Ferro. Rimpiango piuttosto di aver vissuto un numero esiguo di avventure solitarie quando era il momento adatto per farlo, in cui l’introspezione contava per me più di qualunque altra cosa, ora che sento un bisogno quasi viscerale di costruire insieme ad altri, e non più solo per me stesso. Mi aveva sempre affascinato l’idea della solitudine come mezzo per rispondere e rispondersi a interrogativi che solo un luogo senza alcun rumore di fondo può offrire: sono davvero connesso con il flusso della vita? Sono in grado di vivere a fondo l'attimo presente, oppure sono troppo focalizzato sul passato o sul futuro? So vivere in compagnia di me stesso, nonché apprezzare questa compagnia? Proprio per trovare una risposta a tali domande - oltre a questi brevi eremitaggi - feci, negli anni passati, anche alcuni viaggi in solitaria (un po’ più lunghi, questi ultimi, della durata complessiva di qualche mesetto) che mi portarono in sella a una vecchia bicicletta dapprima a Roma, poi in Sardegna e infine in un remoto villaggio della Valle d’Aosta, il quale paradossalmente aveva segnato un punto di svolta nella mia ricerca interpersonale (e forse nella mia intera vita). Ma questo è un altro discorso su cui tornerò presto a parlare, e io in questo momento mi trovo in uno sperduto bivacco in mezzo alle montagne, nel disperato tentativo di riprendere contatto con gli elementi dopo mesi di confinamento a causa della pandemia… carpe diem! La restante parte della giornata trascorre in maniera piuttosto monotona: basta riscaldare la pasta della sera precedente e il pranzo è servito. Non appena smette un pochino di piovere è tempo invece della rituale passeggiata fino alla croce di legno (la quale da qualche anno a questa parte assomiglia piuttosto a una “T”; probabilmente è stata colpita da un fulmine, quindi dal suo creatore in persona) e infine di nuovo a raccogliere la legna nel bosco. Questa volta ho più tempo a disposizione e mi scelgo con cura tre bei solidi rami di faggio, che, unitamente a una miriade di rametti per avviare il fuoco, porto giù alla capanna per creare la mia piccola personale catasta per la serata. Mi accorgo però solamente più tardi che questa legna, pure scelta con le più meticolose attenzioni, brucia male, molto peggio di quella del giorno prima, facendo un fuoco debole, distaccato, che va bene a malapena per scaldarsi, figuriamoci per cucinare. E sì che aveva un bellissimo aspetto… La più grande fatica della giornata consiste proprio nel portare a cottura la zuppa che dovrebbe costituire il piatto forte della cena; decido quindi di rompere la mia personale regola e butto nella stufa un bel ceppo di quella invitante legna proibita, il quale brucia per il resto della serata garantendomi finalmente un bel fuoco, calore a volontà, ma soprattutto la cena.

L’incantesimo può dirsi infine compiuto - nel mio caso è accaduto la mattina del terzo giorno - quando inizi a percepire il senso del tempo che si dilata, non in negativo, come quando si è annoiati o stanchi e i minuti sembrano durare ore, bensì in positivo, e al dilatarsi del tempo segue inevitabilmente l’espandersi delle proprie percezioni e sensazioni. E’ possibile rendere eterno ogni singolo attimo? Questo non lo so ancora, eppure è proprio in momenti del genere che, solitamente, ripenso al Kerouac che innalzava preghiere di gratitudine in onore alle capanne di montagna in cui soggiornava. Che ne sarebbe di me se, anziché due giorni, restassi qui un mese, sei mesi, un anno? Finché non ci provo non potrò mai saperlo. Ma adesso non c’è più tempo per farsi domande: è arrivato il momento di tornare a valle, portandosi dietro gli insegnamenti sempre rinnovati della montagna, per quanto puntualmente dispersi e dimenticati nel rumore di fondo della mediocrità quotidiana. Tra i vari pensieri negativi che anche stavolta mi son trascinato fin quassù dal fondovalle (magari fossi una persona ottimista!), non senza fatica s’è fatto strada un proposito certamente più costruttivo e che forse attendevo da tempo: è giunto il momento di seminare laddove si può, curare la terra e attendere pazientemente il raccolto nonostante questi tempi incerti e difficili. Me lo hanno ricordato anche le belle parole di una poesia di Primo Levi che ho letto proprio al Matale e che vorrei qui riportare, amara forse, ma necessaria, per evitare che anche per me si faccia troppo tardi per vivere e per amare:

“Arrancano i carriaggi verso valle,
Ristagna il fumo degli sterpi, glauco ed amaro,
Un’ape, l’ultima, scandaglia invano i colchici;
Lente, turgide d’acqua, scoscendono le frane.
La nebbia sale fra i larici rapida, come chiamata:
Invano l’ho inseguita col mio passo greve di carne,
Presto ricadrà in pioggia: la stagione è finita,
La nostra metà del mondo naviga verso l’inverno.
E presto avranno fine tutte le nostre stagioni:
Fin quando mi obbediranno queste buone membra?
E’ fatto tardi per vivere e per amare,
Per penetrare il cielo e per comprendere il mondo.
E’ tempo di discendere
Verso valle, con visi chiusi e muti,
A rifugiarci all’ombra delle nostre cure.”

[Verso valle, Primo Levi, 5 settembre 1979]




 

Commenti

  1. Sempre è amore e sempre è vita; ogni respiro, tremito di nervi, incrocio di sguardi. Rivolto a oggetti, soggetti, concreti o astratti, enormi e minuscoli, ordinati in costellazioni di atomi di senso.
    La disgrazia fatale è quando non ci si riconosce dentro questo amore, che non è sempre bello e buono, ma è anche rabbia, tristezza, paura, morte. Variazioni sul tema dell'amore che come ben dici la mediocrità del quotidiano porta sullo sfondo, e riattualizzando la percezione-illusione della nostra separatezza e gerarchia di organi: il cervello deve pensare a come fare funzionare tutto, a come valutare il tutto che siamo noi. È una percezione. Il noi si concretizza direttamente nel tutto, in connessione con il tutto, bello o brutto lo decide qualcun altro, e non deve inserirsi nelle nostre valutazioni. Nelle nostre valutazioni deve inserirsi il bene, l'amore, per noi e per gli altri.

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